Сhe cosa si intende per bilinguismo?
Bilinguismo significa letteralmente:“doppia lingua”. Esistono definizioni diverse a seconda delle teorie di riferimento. Secondo la definizione più radicale, il bilinguismo è la completa padronanza di usare due lingue, ovvero la capacità di usare la seconda lingua come il parlante nativo socialmente equivalente (l’avvocato che parla anche nella seconda lingua da avvocato,l’adolescente – da adolescente) e di usare al suo livello tutte e 4 le abilità linguistiche (comprendere, parlare, leggere, scrivere) utilizzandole spesso – una sorta di “bilinguismo perfetto”, probabilmente molto raro.
Il bilinguismo può essere descritto come la capacità di comunicare in più di una lingua non è tanto importante capire a che livello ci si esprima in una o nell’altra lingua, quanto il fatto che ci si esprima in due lingue. Oppure come la situazione di quelle persone che conoscono due lingue al livello a cui ne hanno bisogno (e in ogni caso non c’è mai parità perfetta fra le due lingue, di solito una lingua domina l’altra, è prevalente sull’altra, e questo rapporto può modificarsi nel tempo.
Quando si conosce bene una lingua straniera si può parlare di bilinguismo?
E’ importante ricordare che esiste una differenza sostanziale tra bilinguismo e conoscenza (anche quando è molto alta) di una lingua straniera. La lingua straniera che ciascuno di noi può studiare anche da adulto è diversa da quella che è la seconda lingua per una persona bilingue.
La lingua materna è quella lingua con cui per la prima volta il bambino ha conosciuto il mondo, la lingua condivisa con la persona “centrale” nella sua vita, quella con cui ha il legame affettivo più forte. Normalmente è la mamma biologica del bambino oppure, nel caso di mancanza di essa, la persona che se ne prende cura.
La lingua seconda, per una persona bilingue, è quella lingua che viene acquisita senza l’aiuto di un insegnante, in un contesto naturale, non formale. [A livello esemplificativo: in una coppia mista, la lingua della madre e la lingua del padre sono le due lingue di un bambino bilingue].
Una lingua straniera viene invece appresa in un contesto istituzionale, formalizzato. Per un bambino bilingue, dunque, l’acquisizione della lingua seconda è diversa dall’apprendimento di una lingua straniera ed è analoga a quella della lingua materna. Il bambino “afferra” la lingua con l’orecchio, non da un libro, ma con naturalezza, dal contesto in cui si trova, e utilizza immediatamente quanto appreso. L’acquisizione della seconda lingua è per il bilingue un processo inconscio, che utilizza la memoria implicita. Il bambino ha accesso alle parole in modo automatico, non pensa a quali parole usare, semplicemente le parole “vengono fuori”.
L’apprendimento di una lingua straniera daragazzi o da adulti è invece un processo formale, di conoscenza non solo della lingua, ma delle strutture della lingua. E’ un processo consapevole, guidato da un insegnante. Si utilizza per imparare una lingua straniera la memoria esplicita, quella che usiamo per ricordare, ad esempio, delle date di storia.
Il bilingue è una persona che usa la seconda lingua in modo libero, non l’ha studiata, l’ha acquisita vivendo in un contesto.
Si riscontra spesso la diversa capacità dei bambini, rispetto agli adulti, di acquisire una seconda lingua. Da cosa dipende questo fatto?
Nei primi anni di vita i bambini usano ed elaborano le lingue, quella materna e la seconda lingua, usando solo un tipo di memoria, mentre gli adulti per imparare la lingua straniera devono creare una memoria addizionale nella quale immagazzinare i nuovi fenomeni linguistici. Ci sono poi aspetti fisiologici che aiutano i bambini nell’apprendimento della lingua straniera nella prima infanzia: gli organi utilizzati per ascoltare, comprendere e parlare sono più plastici nei primi anni di vita, successivamente perdono la loro plasticità diventando meno ricettivi.
Il bilinguismo può creare dei problemi?
Studi recenti evidenziano anzi che il bilinguismo – quando è ben guidato – influisce molto positivamente sullo sviluppo emotivo, cognitivo e sociale del bambino.
A lungo in passato si è ritenuto che il bilinguismo potesse creare dei problemi, perché si pensava che avesse effetto negativo sullo sviluppo del bambino, che il cervello fosse un “contenitore” e che il bilinguismo “ne occupasse”troppo. Oggi sappiamo che il bilinguismo ha invece un effetto positivo, crea persone più flessibili e capaci.
Nelle situazioni in cui i genitori costituiscono una coppia mista e uno dei genitori condivide la lingua madre con il figlio, ci si può riferire al bilinguismo?
In situazioni di coppia mista si può e si deve fare riferimento al bilinguismo. In linea di massima diciamo che se il bambino piccolo si trova di fronte a due lingue e al bisogno di parlare a due persone a cui vuole bene, diventerà bilingue. Per forza di cose una delle due lingue, quella del contesto di vita della famiglia, della scuola del bambino, ecc. diventerà delle due la lingua più usata. Ma intanto la presenza di un genitore che parla la stessa lingua e che ha forse vissuto egli stesso l’esperienza del passaggio da un contesto all’altro diventa un “ponte” per un bambino che ha perso tutti i suoi riferimenti ed è arrivato in un posto nuovo. Per favorire in questi casi lo sviluppo nel bambino del bilinguismo si usa la strategia cosiddetta “one person one language”, in cui la persona che parla la lingua del bambino (ad esempio una mamma straniera) non deve “mescolare” le lingue, poiché questo influirebbe in modo negativo sullo sviluppo linguistico del bambino, ma si rivolgerà sempre (anche fuori casa) al figlio nella sua lingua etnica (nel nostro caso in russo). Il bambino condividerà invece con l’altro genitore la lingua dell’ambiente circostante (l’italiano).
Sempre più spesso i genitori adottivi, pur non avendo la stessa lingua madre del figlio, desiderano che tale lingua, patrimonio culturale del bambino, non vada persa negli anni
Può una famiglia adottiva riferirsi al bilinguismo quando nessuno dei due genitori condivide la lingua madre con il figlio?
In questo caso non possiamo parlare di bilinguismo “classico”,perché per il mantenimento della lingua di origine del bambino bisognerà fare ricorso ad un insegnante esterno alla famiglia, tuttavia è possibile mantenere nel tempo l’investimento su entrambe le lingue. Una delle due lingue, la lingua parlata in famiglia, a scuola e nel contesto sociale di riferimento, ovvero la lingua del paese di adozione, sarà necessariamente preponderante, ma l’altra potrà non essere perduta.
Non dobbiamo mai dimenticare una cosa importante: sia che il bambino apprenda una lingua nuova, sia che coltivi la lingua del suo paese di origine, l’acquisizione di una lingua passa attraverso relazioni affettive. Un bambino è spinto a parlare dall’intenzione di comunicare con la persona a cui vuole bene. Per favorire l’apprendimento della nuova lingua, all’ingresso in famiglia, è importante utilizzare il più possibile la lingua nel contesto della relazione affettiva. Più si parla al bambino, meglio è, ogni attività fatta insieme dovrebbe essere corredata da un commento vocale. Inoltre, ripetitività e prevedibilità danno al bambino sicurezza. E’ importantissimo non buttare il bambino “in acque profonde”, introdurre la nuova lingua a piccoli passi. Inoltre, è importante che il bambino impari ad usare la nuova lingua in una relazione individuale, magari con un altro bambino che già la parla, prima di essere esposto ad un gruppo – ad esempio la classe dell’asilo – che usa la nuova lingua, altrimenti sperimenterebbe l’esclusione dal gruppo.
Sappiamo che la lingua di origine ha per un bambino adottato implicazioni emotive di non semplice gestione, quindi che va messo in conto anche un eventuale rifiuto per la lingua di origine all’ingresso nella famiglia adottiva e nel nuovo paese. Quali risorse può mettere in campo una famiglia adottiva?
Innanzitutto è importante che i genitori comunichino al bambino l’interesse e il rispetto per la sua lingua di origine, magari sforzandosi di impararne almeno qualche parola o espressione. Insieme a questo, preservare un’immagine positiva del paese di origine del bambino, favorire il contatto con la lingua attraverso l’ascolto di canzoni, l’incontro con persone, in speciale modo altri bambini, la visione di immagini di luoghi significativi del paese di origine.
Non solo i bambini adottati, ma anche i bambini figli di immigrati che pure continuano a sentirla parlare in famiglia, tendono ad un certo punto a mettere da parte la lingua di origine e a preferire quella dell’ambiente circostante, quella dei coetanei. Certamente, occorre lavorare nel tempo sull’immagine del luogo di provenienza. E’ difficile pensare che una lingua non si perda se il bambino non è aiutato ad avere una visione complessivamente positiva del paese in cui questa lingua si parla. Se un bambino adottato non ha potuto mantenere la sua lingua di origine, può riprenderla da grande, se ne ha il desiderio, come lingua straniera, e questo dal punto di vista linguistico richiederà uno sforzo maggiore.
Una informazione importante: nel caso di bambini bilingui si raccomanda di non introdurre una terza lingua straniera (ad esempio l’inglese) fino a quando i bambini non acquisiscono una buona padronanza della prima e della seconda lingua, altrimenti si rischia di ritardare o sviluppo linguistico in entrambe le lingue. Ritengo di fondamentale importanza trasmettere ai bambini il valore della conoscenza delle lingue. La lingua è infatti un modo per conoscere il mondo, le altre culture e società che permette al bambino di capire, accettare e rispettare le diversità. Insegnando ai bambini le lingue straniere, li aiutiamo a diventare delle persone sensibili alle diversità, persone con una mentalità aperta, più armoniose, equilibrate ed altruiste.
Ma questo vale anche per gli adulti futuri genitori,rispetto alla lingua di origine del bambino che diventerà loro figlio.
(Urszula MARZEC, esperta di bilinguismo e di metodologie per l’insegnamento delle lingue straniere ai bambini)